Dicono di noi
10/03/2023

Numero chiuso: no a capri espiatori e soluzioni futuristiche

Le riflessioni di Pierino Di Silverio Segretario Nazionale Anaao Assomed e Giammaria Liuzzi Responsabile Nazionale Anaao Giovani pubblicate su Dirigenza Medica n. 1/2023
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Le recenti dichiarazioni del Ministro dell’Università Anna Maria Bernini hanno scatenato una ridda di interventi da parte di diversi Presidenti di Regioni. Tutti giocati sul doppio registro delle modalità di selezione degli accessi al Corso di laurea in Medicina e Chirurgia e del quantum degli stessi. Con una non celata predilezione, senza distinzione di colore politico, per il vecchio mantra dell’abolizione del numero chiuso. Che poi tanto chiuso non è, se nel 2022 ha messo a disposizione 14.740 posti per medici e 1.330 per odontoiatri, al netto delle iscrizioni in Università straniere, come l’Università Cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio in Albania e la facoltà di Enna collegata con la Romania, che rappresentano, per chi ha risorse economiche, la "porta di servizio”, alimentando le disparità sociali e minando gli obiettivi di programmazione.

Siamo di fronte a una ricerca di capri espiatori e a soluzioni futuristiche, semplici quanto sbagliate, che attaccano il numero chiuso come “tappo vero e proprio alla programmazione delle nuove assunzioni sanitarie”, che credevamo costituito dal tetto alla spesa, per nascondere il proprio fallimento politico nella tutela della salute dei cittadini. Al coro che chiede di aumentare gli iscritti si è unito anche il Ministro Schillaci. Ma tant’è. La coazione a ripetere parole d’ordine con scarsa conoscenza della realtà ha la meglio nel ping pong tra responsabilità e demagogia. Oggi, però, la politica si fa con i dati e su questi occorre ragionare, come l’Anaao Assomed fa dal 2010 producendo una ricca bibliografia.

Per quanto riguarda i criteri di accesso, essi vanno certo modificati, cercando di evitare ricorsi amministrativi a tribunali che hanno già dimostrato una elevata propensione ad accoglierli. E senza escludere dal tavolo i sindacati dei medici ospedalieri.

Quanto all’abolizione del numero chiuso, alias programmato, “per necessità” come riconosciuto dalla stessa Ministra Bernini, torna, come una minestra riscaldata, la proposta di copiare la Francia, proprio quando, ironia della sorte, il mondo della Sanità francese mette in discussione quel sistema di selezione e formazione dei futuri medici. Il cui fallimento rende ragione dell’attuale carenza di 22.000 medici. Comunque sia, in Francia, in media, soltanto il 20% degli studenti che si iscrivono ad accesso libero al primo anno riesce ad ottenere l'accesso al secondo anno, e dunque ad iniziare il percorso di studi verso la carriera prescelta. Il restante 80% si ritrova ‘malheuresement’ ad aver sprecato tempo ed energie, potendo decidere di ritentare l'anno successivo oppure indirizzarsi verso altre facoltà.

Chi vuole ispirarsi all’Europa, farebbe meglio a guardare al Portogallo che, 10 anni fa, in una situazione molto simile alla nostra, decise di mantenere il numero chiuso negli accessi a medicina ma di modificare e incrementare i contratti formativi nel percorso post laurea, istituendo i teaching hospitals. La scelta sta funzionando e, a guardar bene, non è diversa da ciò che l’Anaao propone.

Ma perché, ciclicamente, torna questa idea di abolire il numero chiuso a Medicina? A pensar male, si sa, si fa peccato, ma spesso si indovina. Al netto di intenti demagogici, un maggior ingresso di studenti nelle aule universitarie determina un maggior introito per le casse (tasse di iscrizione) e per i vari indotti paralleli (testi universitari, corsi di preparazione agli esami).Inoltre, la pletora di laureati è funzionale all’emergere di una generazione di medici a più basso profilo formativo, da impiegare nel sistema sanitario con un inquadramento e uno stipendio inferiori a quelli attuali e con mansioni dedicate e tabellate, come i paramedici d’urgenza americani o gli ecosonografisti francesi. Così da risparmiare sui costi del personale e garantire un SSN al ribasso. Non a caso, le due principali associazioni europee che si interessano di formazione medica, EJD (European Junior Doctors’ Association) e UEMS (European Union of Medical Specialists), convengono sul fatto che l’apertura libera dell’accesso a Medicina non può garantire un adeguato livello formativo degli studenti, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto pratico, dove tra l’altro in Italia siamo già carenti.

Venendo ai dati, nel 2022 si sono presentati al test di ammissione a Medicina oltre 65.000 studenti per 14.740 posti. Ammettendo tutti, chi risolverà il problema di trovare aule per questa marea di giovani? O si pensa di utilizzare i cinema come negli anni 70? Già con i numeri attuali si parla di aule non capienti, turni e lezioni sul pavimento. Qualora si riuscissero a garantire strutture per l’insegnamento di capienza adeguata e con i necessari supporti tecnologici, sarà necessario garantire anche un tirocinio professionalizzante presso strutture, universitarie e non, dotate del giusto case mix e di personale formato per l’insegnamento. Altrimenti, rischieremmo di avere più studenti di medicina che posti letto! E chi e quando rimedierà alla carenza del personale docente di ruolo necessario per insegnare ad un numero elevatissimo di studenti?

Ogni qualvolta si parla di carenza di medici si alimenta il gioco degli equivoci tra “medici” e “medici specialisti”, gli unici che possono lavorare nel e per il Ssn. In Italia mancano medici, rimbomba su tutti i media la notizia. Notizia monca perché in Italia mancano medici sì ma medici specialisti, soprattutto in alcune branche. Il numero di medici, intesi come laureati in medicina e chirurgia, è in linea con quello degli altri paesi sviluppati (4 per 1000 abitanti), se non superiore alla media europea, mentre mancano i medici specialisti perché per anni non sono stati finanziati in maniera adeguata i contratti di specializzazione, creando il famigerato imbuto formativo. Che è il prodotto della differenza tra il numero dei laureati e quello dei contratti di formazione specialistica disponibili, che solo negli ultimi 4 anni si è ridotta con il finanziamento di 52006 contratti.

Il dato che dovrebbe allarmare non è la carenza di medici laureati quanto la loro drammatica e ingravescente disaffezione per alcune scuole di specializzazione. Il 18% dei posti nelle scuole di specializzazione nell’ultimo anno accademico non è stato coperto, con picchi preoccupanti per patologia clinica, microbiologia, medicina di emergenza urgenza (dati Anaao Giovani), mentre il tasso di abbandono raggiunge l’8,9% (dati ALS). Tutti numeri che andrebbero analizzati e compresi ma che denunciano la necessità di non abbassare il livello di investimento sulla formazione specialistica post laurea per assicurare che per ogni laureato ci sia un contratto o una borsa per Mg. La disaffezione abbraccia l’intero sistema di cure pubblico e, certo, non si risolve aprendo la facoltà di medicina a decine di migliaia di studenti, in una riedizione della pletora medica che produce sbocchi lavorativi solo nel privato, e in quel sottobosco di cooperative che oggi impera, senza regole e senza controllo, anche negli ospedali.

L’attuale carenza di “medici specialisti”, e non di “medici”, deriva dagli errori commessi nel decennio passato ma è giusto cominciare a chiedersi se gli attuali ingressi al Corso di Laurea siano congrui rispetto alle esigenze future del SSN. Gli studenti iscritti nell’anno accademico 2022/2023 saranno pronti per il mondo del lavoro specialistico solo nel 2033, dopo un lungo e duro percorso di studio e formazione che, al netto degli abbandoni, ne porterà alla agognata meta circa 13.000. Quindi, ne formeremo almeno 130.000 nei prossimi dieci anni. Periodo in cui, però come si evidenzia dal grafico allegato, il fabbisogno di specialisti nel SSN per garantire il turnover sarà quasi dimezzato, anche se si dovrà tenere conto dell’attuale sottodimensionamento delle dotazioni organiche, delle nuove esigenze emerse con la pandemia da Sars-CoV-2, delle fughe (3000 nel 2019) indotte dal peggioramento delle condizioni di lavoro negli ospedali pubblici. Ponendo attenzione ad evitare il costituirsi di un imbuto lavorativo.

Il rischio mortale che corre la sanità pubblica è costituito dalla mancanza di specialisti ora, e non tra 10 anni. Nel periodo 2023-2027 sono stimate, tra pensionamenti e fughe, circa 35000 uscite dal SSN, a fronte delle quali avremo una possibilità di sostituzione capace solo di mantenere lo status quo, cioè un contesto organizzativo palesemente carente, come evidenziato dalle criticità organizzative emerse durante l’epidemia e dalle liste d’attesa. Come riconoscono le stesse Regioni che chiedono al Governo “soluzioni prontamente attuabili e idonee ad affrontare nell’immediato la carenza di personale sanitario”. L’incremento degli iscritti a Medicina e Chirurgia è un provvedimento facile ma sbagliato e temporalmente sfasato rispetto alla grave criticità attuale, oltre che foriero di spesa per la necessità di aumentare parallelamente gli investimenti nella formazione post laurea. Occorre, invece, sulla falsariga di quanto già fanno i corsisti in MG, anticipare la età di ingresso al mondo del lavoro dei medici specializzandi degli ultimi due anni, con un contratto di lavoro a tempo determinato a scopo formativo, secondo i criteri approvati dalla Conferenza Stato Regioni, in tutta la rete ospedaliera con opportuni incentivi per gli ospedali periferici. E riscrivere la normativa concorsuale per la dirigenza, datata 1997, abolire il tetto di spesa alle assunzioni e, soprattutto, migliorare , attraverso i CCNNLL, le condizioni di lavoro e i livelli retributivi dei medici in servizio per arginare la loro fuga dal SSN.

Servono investimenti sulle risorse umane se è reale la preoccupazione per la disaffezione o “crisi di vocazione” del personale del Servizio Sanitario Nazionale, e non solo nei settori legati alla emergenza. Non abbiamo più molto tempo, e sicuramente non un decennio, per disinnescare la bomba professionale, generazionale e sociale innescata dal flop della programmazione ministeriale, dal fallimento del sistema formativo abbarbicato al monopolio universitario, dal definanziamento progressivo della sanità pubblica con il corollario della falcidia di posti letto, pre-requisito di una determinazione al ribasso degli investimenti sul personale, la cui quantità e qualità professionale sono elementi critici per la sostenibilità di qualunque sistema sanitario. Si deve riprogrammare, anzi iniziare a programmare, la salute avendo riguardo alle esigenze dei pazienti e dei professionisti, piuttosto che al tema, certo più interessante per la politica, del consenso. Se non si vuole lasciare affondare una infrastruttura di enorme valore civile e sociale, quale il servizio sanitario, pubblico e nazionale.

Le assicurazioni aspettano il passaggio del cadavere sulle rive del fiume.

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