“Il lavoro medico è usurante, ma l’Europa lo ignora”. - Intervista alla Presidente FEMS su Quotidianosanità.it

Alla guida della FEMS e forte della sua esperienza in Anaao, Alessandra Spedicato denuncia le gravi criticità della sanità europea

16 Aprile 2025

“Il lavoro medico è usurante, ma l’Europa lo ignora”. Intervista a Alessandra Spedicato, presidente FEMS

Dal riconoscimento della professione medica come attività usurante alle criticità sull’orario di lavoro, dalla crisi delle vocazioni alla fuga dei professionisti verso i Paesi più “accoglienti”, fino alla necessità di una rappresentanza sindacale autonoma. Alessandra Spedicato ci racconta la sua visione e le battaglie che intende portare avanti a Bruxelles.

Da pochi mesi alla guida della Federazione europea dei medici dipendenti (Fems), l’anestesista-rianimatrice Alessandra Spedicato, traccia un quadro netto delle criticità che affliggono la professione medica in Europa: turni massacranti, carenza di personale, normative superate e una crescente disaffezione tra i giovani medici. Forte anche della sua lunga esperienza nelle file del sindacato Anaaao Assomed.

In questa intervista esclusiva, Spedicato rilancia la necessità di riconoscere il lavoro medico come usurante, denuncia il mancato rispetto delle regole sull’orario di lavoro e annuncia una serie di proposte concrete che saranno presentate il 23 aprile al Parlamento europeo. Dal Libro bianco sulla salute dei medici alla revisione degli organici basata sul Full Time Equivalent, fino alla battaglia per la tutela sindacale autonoma e il diritto di sciopero, la presidente FEMS offre una visione lucida e combattiva del futuro della sanità europea. Senza dimenticare che ormai per uscire dall’impasse bisognerà inevitabilmente arrivare ad una ridefinizione dei ruoli professionali, con una distribuzione più razionale delle competenze.

Dottoressa Spedicato, da ottobre scorso lei è alla guida della FEMS. Un incarico prestigioso e, immaginiamo, impegnativo. Che sfida rappresenta per lei questo nuovo ruolo?
È sicuramente una sfida importante, ma anche necessaria. Il contesto in cui si muove oggi la medicina europea è profondamente cambiato rispetto al passato. È cambiata la medicina in sé, sono mutate le esigenze dei professionisti e – fattore non trascurabile – è cambiata la composizione della categoria. Oggi la presenza femminile tra i medici è sempre più significativa e con essa emergono nuovi bisogni, istanze diverse, che richiedono risposte concrete. Il rischio è quello di restare ancorati a schemi superati. Per questo dico che serve un’accelerazione: dobbiamo metterci, e con urgenza, al passo con i tempi.

Qual è secondo lei, oggi, la priorità assoluta da affrontare per migliorare le condizioni di lavoro dei medici in Europa?
Senza alcun dubbio l’orario di lavoro. È il primo nodo da sciogliere. La normativa europea sull’orario non è più adeguata: non garantisce i diritti fondamentali dei lavoratori, a partire dal riposo giornaliero e settimanale, che in molti Paesi – soprattutto quelli dove c’è una cronica carenza di personale – non vengono rispettati. In pratica, il banco è saltato. Ogni Stato si arrangia come può: c’è chi adotta l’opt-out, chi combina l’attività dipendente con quella libero-professionale nello stesso ospedale, chi carica di ore extra il personale, ignorando ogni norma. Il risultato è un sistema disfunzionale e iniquo.

Un modello che mal si concilia anche con le aspettative delle nuove generazioni di medici, giusto?
Assolutamente. I giovani medici non sono più disposti ad accettare turni massacranti o ritmi insostenibili. Non vogliono rinunciare alla qualità della vita. Vogliono lavorare bene, con serietà, ma senza sacrificare ogni cosa. È una richiesta legittima, e noi dobbiamo saperla ascoltare. Una delle soluzioni potrebbe essere una maggiore apertura al part-time, con formule più flessibili. Ma il problema va ben oltre: serve una riflessione seria su come conciliare questa nuova visione del lavoro con le reali esigenze dei sistemi sanitari. Serve una politica europea strutturata su questo.

Lei ha più volte sottolineato l’urgenza di riconoscere il lavoro medico come usurante. Perché questa battaglia è così importante?
Perché è un paradosso che, nel 2025, il lavoro medico non venga ancora considerato usurante a livello europeo. È un vuoto normativo che non possiamo più permetterci. Le vecchie generazioni si sono concentrate sulla tutela dell’identità professionale, tralasciando l’impatto fisico e psichico del lavoro. Io, da anestesista-rianimatore, vivo sulla mia pelle cosa significa affrontare turni notturni, ore infinite in sala operatoria, situazioni di emergenza continue. E non parlo solo della stanchezza: ci sono dati scientifici che mostrano chiaramente come il lavoro notturno sia associato, ad esempio, a un aumento del rischio di sviluppare alcuni tipi di tumore, in particolare il carcinoma mammario.

Quindi un tema che riguarda anche la crescente femminilizzazione della professione medica.
Esattamente. Non è più sostenibile ignorare questa realtà. Se la medicina è sempre più al femminile, allora bisogna tener conto anche delle vulnerabilità specifiche legate alla salute di genere. Il riconoscimento del lavoro usurante non è solo una questione previdenziale – per quanto la possibilità di un pensionamento anticipato sarebbe una conquista – ma anche e soprattutto di prevenzione. Dobbiamo mettere in campo strategie che accompagnino il medico per tutta la sua carriera, proteggendolo e garantendogli salute e dignità lavorativa fino alla fine del percorso.

Il 23 aprile presenterete al Parlamento europeo il “Libro bianco sulle condizioni di lavoro dei medici in Europa”. Di cosa si tratta?
Il Libro Bianco della FEMS è un progetto unico, che racconta le condizioni di lavoro dei medici in Europa da un punto di vista privilegiato, quello di professionisti che sono al tempo stesso medici ed esperti sindacalisti. Dunque, accanto alle criticità evidenziate, vengono riportate analisi e possibili soluzioni.  Presentare al Parlamento Europeo significa avere interlocutori privilegiati che possono realmente mettere in atto un cambiamento nelle politiche del lavoro dei medici dipendenti.

Quali sono i principali temi che evidenzierà?
Attualmente, in molti Paesi europei, Italia compresa, si calcola il fabbisogno di personale sulla base del numero di “teste”. Ma questa è una fotografia falsata. La popolazione medica è sempre più anziana, sempre più femminile, e quindi soggetta a congedi parentali, permessi 104, gravidanze, malattie. Il risultato è che, sulla carta, ci sono i numeri. Ma nella realtà, le corsie sono sguarnite e il carico ricade su chi resta operativo. Per questo proponiamo un cambio di paradigma: il Full Time Equivalent(FTE).

Può spiegare meglio questo concetto?
Il FTE misura il tempo effettivo che un lavoratore dedica all’attività professionale. Se lavoro a tempo pieno, il mio FTE è 1. Se sono part-time, sarà 0,5. Ma se sono in malattia per un lungo periodo, il mio FTE è di fatto zero, anche se formalmente sono in organico. È un indicatore molto più realistico, che ci permette di capire davvero quante risorse abbiamo a disposizione e come distribuire il lavoro. Il nostro obiettivo è ottenere un sistema che calcoli gli organici sulla base dell’FTE, suddiviso per genere e fascia d’età, con un coefficiente correttivo che rifletta la reale disponibilità lavorativa.

Porterete al Parlamento europeo anche altre istanze?
Certamente. Un altro tema fondamentale è quello della reperibilità passiva, che oggi viene considerata tempo di riposo. Ma non è così. Se un medico è reperibile, non può organizzare liberamente il proprio tempo, perché è in attesa di essere chiamato. In alcuni Paesi è persino obbligato a restare fisicamente nei pressi dell’ospedale. È una violazione evidente della libertà individuale. Eppure, questa condizione viene sistematicamente ignorata, anche per motivi economici.

In che senso?
Nel senso che la reperibilità è spesso utilizzata come strumento per coprire le carenze di personale. Costa meno, è più flessibile, ma è anche più stressante per il medico. È un tema finora mai affrontato in modo sistemico, eppure centrale se vogliamo costruire un’organizzazione del lavoro equa, moderna e sostenibile.

Quali progetti la FEMS vuole mettere in campo nell’immediato futuro?
Entro la fine del mese, lanceremo una indagine rivolta a tutti i medici in Europa intitolata “Shaping the future of doctors’ health”. È un progetto ambizioso e, credo, molto importante. Lo abbiamo realizzato in collaborazione con la Fondazione Pietro Paci. Si tratta di un’analisi approfondita sull’impatto dell’organizzazione del lavoro sulla salute dei medici in Europa. Raccoglieremo dati sulle assenze per malattia, sull’insorgenza di patologie croniche, sul carico orario e sulle condizioni psicofisiche dei professionisti. L’obiettivo è duplice: da un lato offrire una base scientifica per sostenere il riconoscimento del lavoro medico come usurante, dall’altro aprire una riflessione concreta su come riorganizzare gli organici.

C’è anche una riflessione da fare sul ruolo del sindacato medico in Europa. Cosa sta accadendo?
In alcuni Paesi si sta mettendo in discussione il diritto dei medici a scioperare, in nome della tutela dell’assistenza sanitaria alla popolazione. È accaduto in Slovenia, e ci ha provato anche il Regno Unito. È un rischio enorme. Il diritto di rappresentanza sindacale è fondamentale. Senza di esso, i medici diventano lavoratori silenziosi, privi di voce. Per questo lotterò perché i medici mantengano una rappresentanza autonoma, separata dal resto della pubblica amministrazione.

In Italia, però, i medici sono ancora nel “calderone” della PA. Cambierà qualcosa?
Ce lo auguriamo. I medici non sono impiegati qualsiasi. Hanno competenze, responsabilità, rischi enormi. Meritano una contrattazione separata. In alcuni Paesi addirittura gli infermieri -più numerosi - rappresentano anche i medici nei tavoli contrattuali. Una cosa impensabile. La professione medica ha una sua identità e una sua dignità, che non può essere delegata ad altri.

Un’ultima domanda: come vede il futuro della professione medica in Europa, alla luce della crescente carenza di specialisti?
La situazione è complessa. In Paesi come Polonia, Romania, Ungheria e Bulgaria, c’è una vera e propria emorragia di medici verso realtà più attrattive come Germania, Svizzera e Francia. In Italia, per ora, il fenomeno è contenuto, ma non possiamo abbassare la guardia. La soluzione passa per il task shifting, ovvero la ridefinizione dei ruoli professionali, con una distribuzione più razionale delle competenze. Naturalmente, il task shifting non è un mero passaggio di consegne. Deve richiedere un maggior investimento economico sul personale sanitario da parte della politica. Perché i medici, a fronte delle competenze che passeranno ad altre professioni, dovranno dedicarsi alle super specializzazioni (di cui già si parla in Europa) che richiedono nuove abilità, nuovi scenari e nuovo impegno.

Non teme che questa riorganizzazione possa creare frizioni con altre professioni sanitarie?
È un rischio, certo. Ma è inevitabile affrontarlo. Serve una definizione chiara dell’atto medico e un quadro normativo sulla responsabilità professionale. Bisogna lavorare in squadra, ma senza confondere le competenze. E serve anche il coraggio di investire, perché senza risorse si rischia di restare fermi, impantanati in un sistema che non funziona più.