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«La nostra sanità è un malato in terapia intensiva che continuiamo a tenere in vita con i macchinari perché non riesce a respirare autonomamente. E quei macchinari siamo noi operatori, che andiamo avanti nonostante le carenze croniche, la mancanza di investimenti che prosegue da quindici anni, e i tagli lineari fatti al personale, ai reparti e ai servizi. Un sistema che non sappiamo quanto ancora reggerà».
Pierino Di Silverio, chirurgo 46enne, presidente nazionale di Anaao Assomed (il più grande sindacato di medici e dirigenti sanitari italiano, 30mila iscritti a livello nazionale e 800 nell’Isola) oggi è a Cagliari per un convegno sulle novità contrattuali, organizzato dai colleghi sardi guidati da Susanna Montaldo.
Dottore, un quadro drammatico.
«Comincia a non esserci più un’equità di accesso alle cure, a non essere più salvaguardato l’articolo 32 della Costituzione».
In tutte le regioni?
«La mobilità passiva, cioè il numero di pazienti che vanno a curarsi fuori dalla propria regione di residenza, vede ai primi posti le regioni del sud, e la Lombardia è la destinazione più ambita. Ma il dato che fa capire quanto sia omogenea la crisi, è che la Lombardia è la seconda, economicamente, a inviare pazienti fuori regione. Insomma, l’inaccessibilità alle cure coinvolge tutti».
Ma al centro nord il reddito pro-capite è molto più alto…
«E la sanità privata la fa da padrona, il cittadino forse riesce a curarsi pagando, al sud invece la gente non può farlo».
Comunque, le attese per una visita o un esame stanno diventando molto lunghe anche nel privato.
«È un problema di domanda e di offerta, ma il vero problema, al di là del lato economico e organizzativo, è di paradigma».
Cioè?
«Il nostro impianto legislativo attuale, anche in termini di prestazioni, è stato costruito 40 anni fa, quando le patologie erano per lo più acute. Oggi invece la maggior parte sono diventate croniche, perché il progresso farmacologico, terapeutico, tecnologico, ha portato a una cura delle patologie più gravi. Ma richiede più tempo, e i pazienti restano in carico al sistema sanitario quasi a vita. Insomma, siamo bravi sulle acuzie, ma sul cronico siamo in enorme difficoltà. Non c’è abbastanza personale, non abbiamo abbastanza strutture ricettive, e manca un’organizzazione di presa in cura del paziente cronico».
L’autonomia differenziata peggiorerà la situazione?
«È il colpo di grazia».
Perché?
«In estrema sintesi, il gettito fiscale che oggi le regioni in parte destinano a un fondo nazionale, non dovranno più farlo, quindi si terranno tutto per loro, e naturalmente le regioni più povere soffriranno. Viene identificato un meccanismo di perequazione, con soldi che dovrebbe mettere lo Stato, 100 miliardi, ma non li ha».
Poi?
«Tra le materie per cui le regioni possono chiedere subito l’autonomia, cioè che non hanno bisogno di quantificare i Lep (i livelli essenziali di prestazioni), c’è quella sui “professionisti”, anche medici e dirigenti sanitari. Ora una Regione può stabilire le sue regole per assumerli, pagarli e gestirli, e questo creerà una mobilità professionale verso il miglior offerente. Diventerà un mercato».
Quali soluzioni?
«Primo: rendere attraente la professione, bisogna investire. Non solo aumentare gli stipendi, ma anche permettere una maggiore facilità nelle carriere e, soprattutto, dobbiamo acquisire il ruolo, come avviene in altre parti del mondo, di dirigenti speciali. Oggi siamo equiparati a quelli della Pubblica amministrazione».
Ancora.
«I piccoli ospedali che non servono devono essere riconvertiti in ospedali di comunità. Implementiamo la medicina del territorio, trasformiamo l’ospedale in luogo di cura, dove il paziente arriva già “studiato” grazie al fascicolo sanitario elettronico. Potremmo ridurre le liste d’attesa, aumentare il personale nelle strutture di riferimento, ma soprattutto faremmo un grande favore ai cittadini delle zone disagiate che oggi non hanno più alcun punto di riferimento». (cr. co.)