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È necessaria una inversione di rotta non solo nella difesa del sistema sanitario pubblico e nazionale ma anche dei suoi professionisti, razza non protetta a rischio estinzione. Perché è corretto ricordare che, se l’aspettativa di vita dei cittadini italiani è superiore alla media europea è merito non solo della genetica o della dieta ma anche del Sistema sanitario che se ne prende cura. E quando questo sistema, con i suoi medici e le sue mediche non ci sarà più, noi italiani finiremo di vantare la nostra longevità.
Condizioni di lavoro inadeguate e stress determinano una diminuzione dell’aspettativa di vita dei medici. È questa la conclusione dall’analisi incrociata di dati e pubblicazioni provenienti da diversi paesi. Non sorprende che le condizioni e il tipo di lavoro giochino un ruolo sulla salute dei medici, specie in alcune discipline. Ma che si riduca sensibilmente la sopravvivenza di mediche e medici, rispetto alla popolazione generale, è un’informazione che deve suscitare attenzione e interventi politici adeguati.
Nel 2021, la rivista britannica Lifestyle Medicine ha pubblicato uno studio retrospettivo su dati collezionati dal British Medical Journal tra il 1997 e il 2019, grazie alla presenza di un registro che certifica l’anno di morte e il settore di specialità dei medici britannici. I dati dimostrano, ad una prima analisi, che i medici vivono più a lungo rispetto alla popolazione generale grazie alla presenza di tre fattori:
benessere economico e classe sociale tali da influenzare positivamente lo stile di vita (questo elemento influenza positivamente anche altre professioni)
maggiore conoscenza sul tema della prevenzione e del precoce riconoscimento di patologie
rapido accesso a diagnosi e terapie.
Lo studio inglese evidenzia, però, che questa longevità riguarda solo alcune categorie di medici e il divario nella aspettativa di vita tra i medici di medicina generale ed i colleghi di PS è di ben 20 anni a favore dei primi.
Questo gap si manifesta soprattutto per i medici che lavorano nel settore dell’emergenza urgenza - ma anche in anestesia e rianimazione - che muoiono prima della popolazione generale (a differenza delle altre discipline specialistiche) e il rischio di mortalità precoce persiste per i colleghi e le colleghe del PS anche se successivamente cambiano reparto lavorativo. In modo azzardato e provocatorio, si può affermare che lavorare nel settore dell’urgenza sia un fattore di rischio specifico e provochi danni irreparabili sulla salute degli operatori al pari del fumo di sigaretta.
Ma cosa accade ai medici italiani?
Nel 2016, l’Ordine degli attuari ha presentato uno studio retrospettivo su dati raccolti dal 1980 al 2011, provando che le professioni con fasce di reddito più alte, tra cui i medici, vivono più a lungo della popolazione generale. Anche i dati forniti dall’Enpam, per gli anni 2020-21-22 sembrano dimostrare una aspettativa di vita maggiore delle mediche e dei medici rispetto alla popolazione generale.
Ma se andiamo ad osservare con più attenzione i dati riportati (vedi grafici allegati) cogliamo due aspetti molto interessanti.
Il delta tra le due categorie (medici vs popolazione generale), nel corso degli ultimi anni, si è ridotto in modo importante nel sesso femminile.
Nel 2005, le donne medico vivevano 4 anni in più rispetto alla popolazione generale, mentre nel 2022 la differenza si è ridotta a 1,77 anni. Anche nel sesso maschile, questo delta appare in flessione, anche se in misura inferiore. Nel 2005 i medici vivevano 2,13 anni in più rispetto alla popolazione generale, mentre nel 2022 la loro aspettativa di vita appariva superiore solo di 1,92 anni.
L’idea che il peggioramento complessivo delle condizioni di lavoro nella Sanità italiana stia influenzando lo stato di salute dei suoi professionisti è rafforzata dal dato che tra il 2006 e il 2009 e nel 2020/21 tra i medici (ma non tra la popolazione generale) c’è stata una brusca inflessione nella crescita degli anni di aspettativa di vita a 68 anni.
Cosa sia successo nel 2020-21 è noto a tutti, mentre si presume che a influenzare il dato nella prima decade degli anni 2000 possa essere stato l’impatto sui conti dello stato della crisi finanziaria del 2008 e il riscontro di disavanzi sanitari elevati in alcune regioni a partire dal 2007.
I conseguenti piani di rientro con il blocco del turn-over, senza l’adozione della direttiva europea sull’orario di lavoro, che disciplina il diritto al riposo, ha avviato le condizioni di lavoro negli ospedali su una china che le ha progressivamente portate, grazie anche alla riduzione del finanziamento reale e all’impatto della pandemia, al drammatico stato odierno.
Oggi la crescente presenza femminile in Sanità deve far riflettere le istituzioni su un rischio di genere legato alle attuali condizioni di lavoro. Sono ormai innumerevoli gli studi, a livello nazionale e internazionale, non ultimo quello prodotto dall’Ordine dei Medici di Napoli, riguardo gli effetti nocivi sulla salute di stress lavoro correlato e burn out, ma soprattutto la loro preoccupante incidenza nella classe medica.
Uno studio pubblicato nel Dicembre 2022 sulla rivista italiana Journal of Gender Specific Medicine sottolinea che le donne – forza lavoro ormai prevalente in sanità – risultano più a rischio, da un punto di vista psicologico, per patologie da stress lavoro correlato, mentre la rivista Current Biology ha reso noti i danni cerebrali di compiti cognitivi prolungati (attività multitasking, concentrazione, memoria e risoluzione di problemi), propri di alcune attività lavorative tra le quali quella del medico, favoriti dall’accumulo nel cervello di glutammato. Insomma, non solo i medici italiani rischiano di morire prima della popolazione generale ma soprattutto di presentare una morbilità maggiore.
Una nota di speranza emerge dall’evidenza che la pensione faciliti cambiamenti nello stile di vita e il ritorno a ritmi circadiani fisiologici, tali da ridurre il rischio di eventi avversi cardiovascolari. Stupisce allora la volontà politica di proporre, con accanimento, un pensionamento ritardato dei medici a 72 anni, ma soprattutto il mancato riconoscimento, alla luce di tutti i rischi elencati, del loro lavoro - almeno in alcune specialità - come usurante. In queste categorie, troviamo peraltro quella del professore di orchestra, ma non quello del chirurgo che usa il bisturi o dell’urgentista che passa la notte insonne. Come se tali lavori non avessero alcun effetto sulla salute dei medici, a dispetto di quello che ci dicono i dati.
Sembrano, alla luce di questi dati, paradossalmente più saggi i giovani medici laureati che fuggono da queste specialità così logoranti, nella speranza di assicurarsi una lunga e serena vita lavorativa e sociale.
È necessaria una inversione di rotta non solo nella difesa del sistema sanitario pubblico e nazionale ma anche dei suoi professionisti, razza non protetta a rischio estinzione. Perché è corretto ricordare che, se l’aspettativa di vita dei cittadini italiani è superiore alla media europea è merito non solo della genetica o della dieta ma anche del Sistema sanitario che se ne prende cura. E quando questo sistema, con i suoi medici e le sue mediche non ci sarà più, noi italiani finiremo di vantare la nostra longevità.
Alessandra Spedicato e Marina Tarsitano
Area Formazione Femminile Anaao Assomed
Pierino Di Silverio
Segretario Nazionale Anaao Assomed