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La scomparsa della giovane ginecologa di Trento specchio di un’organizzazione del lavoro cieca, sorda e disumana
21 LUG - Gentile Direttore,
capita che da più di un mese sia scomparsa una giovane ginecologa, con un messaggio di sofferenza sul e per il lavoro. Capita che la sua condizione lavorativa fosse comune ad altre/i colleghe/i, che avevano reagito lasciando il posto di lavoro.
Capita che la situazione fosse nota, per essere stata denunciata sia all’interno che all’esterno della struttura in cui accadeva. Che ne fossero al corrente cioè, per via diretta e/o informale, amministrazioni, sindacati, società scientifiche. Che questa situazione fosse una potenziale bomba a orologeria per il benessere lavorativo e la rispettabilità di quanto la comunità di lavoratrici e lavoratori aveva negli anni costruito nel territorio.
Superate le doverose informative su tutti i media nei primi giorni, siamo nella classica attesa “che la giustizia faccia il suo corso”. Un silenzio preoccupante è caduto sulla vicenda, sulla quale è corretto, per chi osserva dall’esterno, non ipotizzare o avventare giudizi.
Da addette/i ai lavori questo silenzio, o meglio, questo ammutolimento, (a parte la meritoria nota della Presidente AOGOI), ci appare simile a quando accade il famigerato “errore medico”. In cui, con un automatismo che chi lavora in ospedale conosce bene, da un momento all’altro, colleghe/i che hanno condiviso notti e stress alle coronarie per uno stesso obiettivo, diventano potenziali nemici nella ricerca del “colpevole”. Si pesano le parole, si pensa “istintivamente” all’avvocato per poter riflettere sullo scenario, si ha perfino paura di parlarne in casa, dove chi non c’era non può capire, e chi non fa lo stesso lavoro troppo superficialmente rimprovera di non aver previsto, o prevenuto.
Christophe Dejours, nel suo libro” Si può scegliere. Soffrire al lavoro non è una fatalità” (Moretti& Vitali, 2021) descrive lo svilimento del lavoro medico in Francia. Ecco quanto gli operatori del reparto rianimazione di un ospedale, su richiesta del capo servizio, preoccupato dal turnover impressionante del personale, raccontano ai ricercatori: “Prima..si era fieri di lavorare qui. Era il miglior servizio di tutta la regione. L’equipe era solidale, coinvolta. Oggi, al contrario, ognuno fa il suo lavoro nel suo angolo, non c’è coesione… Il personale sanitario non assiste più alle riunioni di staff da un anno..I curanti constatano che le informazioni non passano, o sono deformate: niente a che vedere tra il messaggio originale e il risultato”. Dejours osserva: “Il personale di cura soffre, privato della possibilità di rendere condivisibili e comunicabili questioni etiche come i rischi psichici legati al lavoro…Se questa sofferenza è esplosa nella organizzazione del lavoro contemporaneo, è anzitutto a causa della individualizzazione e della solitudine indotte dai metodi di gestione”. E continua: “Ma quando non è più possibile mobilitare le difese collettive che cosa succede? Quando il soggetto esegue dei compiti che deplora, quando dà la sua collaborazione a un sistema considerato ingiusto e contrario ai suoi valori, il soggetto fa esperienza del tradimento di sé.. È a questo punto che l’identità corre il rischio di essere scardinata. La crisi psicopatologica che ne deriva può prendere differenti forme fino al suicidio”.
Il caso della giovane ginecologa, per caratteristiche e tempistica, appare paradigmatico di una organizzazione del lavoro da anni cieca, sorda e disumana. Non che il Trentino sia improvvisamente il peggio, o che le altre regioni eccellano. Non ci riferiamo a specifici individui, ma agli effetti che questa organizzazione del lavoro ha prodotto nel tempo sui singoli. Le circa 20 persone che nel breve periodo di un paio di anni hanno rinunciato a lavorare in quella struttura sono un “cluster” dei circa tremila medici che in Italia nel 2019 sono transitati dall’ospedale pubblico al privato, a dimostrazione di un trend che per la prima volta dal secolo scorso dichiara il servizio pubblico insopportabile e, addirittura, “liberatorio” il sistema privato.
Recentemente (La sanità che vogliamo. Le cure orientate dalle donne, Moretti&Vitali, 2021) abbiamo esaminato la disfatta del governo del SSN alla luce dell’esperienza pandemica, denunciando la necessità di un reale cambio di paradigma, per donne e uomini che tale lavoro hanno scelto, o sceglieranno.
Certo, la collega di Trento non è la prima donna, o il primo uomo, ad aver subito pressioni o mobbing, che si registrano, ahimè, a tutte le latitudini. Ma facciamo comunque fatica, nel 2021, come comuni cittadine/i, a immaginare la solitudine e il vuoto nella vita di relazione di una giovane ginecologa “con tutta la vita davanti”, come si dice. Facciamo fatica a immaginare come doveva essere andare tutti i giorni e le notti al lavoro, coordinarsi con i/le colleghi /e nel reparto, il piccolo mondo in cui si passa la maggior parte dell’esistenza.
Mentre ufficialmente non trapelano notizie su Sara, sono altre le cose che non riusciamo ancora a credere. Che una sofferenza come quella che Dejours ascrive all’organizzazione del lavoro presenti esiti finora mai riscontrati negli ultimi decenni, stridendo amaramente con il conclamato protagonismo femminile in sanità, con la superiorità delle donne e tutta la voglia di contare. Con la motivazione che ti fa accettare un posto a centinaia di chilometri lontano da casa (sarebbe successo se avesse lavorato nella sua città?), con il diritto-dovere, proprio perché donna, di non mollare. Che sia possibile, infine, che un episodio di tale portata venga allo scoperto solo a distanza di mesi, in epoca di internet, e che, infine, non si sia ancora sentita la voce delle donne, così attive in questi giorni su temi come diritti civili e parità di genere.
Intanto c’è una famiglia, parenti e amici cui non era stata prospettata, tra i rischi della professione medica, una sofferenza sul lavoro così perniciosa. E c’è la comunità delle tante giovani mediche, e studentesse, e specializzande in Ginecologia e Ostetricia (oggi al primo posto nelle scelte di specialità) attratte dalla cura di altre donne, a cui non si potrà raccontare, negli incontri di orientamento, di fragilità psicofisiche. Ci chiediamo viceversa: ci sono state riflessioni ad alta voce da parte dei vertici sanitari/aziendali/amministratori, oltre ai classici amoveatur (v. gioco delle tre carte) per i dirigenti più in vista? C’è stato ascolto (e relative scuse) verso i lavoratori così umiliati? Ci saranno prese di posizione da parte della Federazione delle aziende sanitarie ed ospedaliere (FIASO)? Perché non si tratta di un episodio isolato, ma di una seriale “normalità” iscritta nel management sanitario standard di tipo monocratico e nella sagra del regionalismo dopo la modifica del Titolo V.
Quello di Sara non è un “cold case”, ma la metafora di un sistema politico-organizzativo che, come Crono, mangia i suoi figli.
Quella di Sara è, infine, una storia che parla alle donne. A tutte le donne, soprattutto a quelle tante impegnate nel lavoro di cura e a chi occupa tutti i giorni pagine social all’insegna della parità di genere, della leadership femminile, della promozione delle donne nella scienza, della proposizione di modelli professionali “vincenti” alle più giovani. Questa esperienza insegna che dovrebbe essere ancora valido il motto dei sindacati americani del secolo scorso (Il torto fatto a uno è un torto fatto a tutti) e, ancora, la prima lezione del femminismo, la solidarietà.
Alcuni anni fa ci fu un caso simile riguardante una collega ginecologa di Genova. Un grande giornale nazionale pubblicò in prima pagina la sua storia: dopo una vita spesa a occuparsi della cura delle donne era rimasta da anni sola con la sua coerenza a rispettare, dal primo all’ultimo articolo, una legge dello stato perchè tutti i colleghi erano diventati obiettori. Oramai vicina a depressione fu costretta a operare, come dice Dejours, un tradimento di sé e dei suoi valori. Ricevette sostegno dalle colleghe, e da loro fu appoggiata con varie iniziative, che arrivarono fino al presidente FNOMCeO.
Un’altra storia, un’altra epoca, forse. La conferma che all’inarrestabile avanzata delle donne in sanità, che hanno già ereditato il governo della salute, ancora rimangono vecchi e nuovi conti con vecchi e nuovi diritti, con la sorellanza e il significato del lavoro di cura. Che forse siamo ancora in tempo a trasmettere alle giovani (e meno giovani) colleghe di Sara.
Sandra Morano
Coordinatrice Area Formazione Femminile Anaao Assomed
Ginecologa Università di Genova