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07/04/2021

Covid-19. Storie in corsia: le testimonianze dei giovani specialisti. Dirigenza Medica n. 3/21

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Intervista a Letizia Mori, Medical Consultant at London North West Healthcare NHS Trust
A cura di Fabrizio Mezzasalma Compenente Direttivo nazionale Anaao Giovani

Letizia Mori è un medico specialista in malattie respiratorie che da diversi anni lavora in Inghilterra come medico ospedaliero presso Northwick Park Hospital nel nord ovest della capitale inglese. L’abbiamo intervistata per parlare di opportunità professionali oltremanica, e della sua esperienza durante la pandemia. Dalla sua testimonianza emerge una realtà sanitaria diversa dalla nostra con un percorso formativo più completo ed un accesso alla dirigenza medica scevro dai meccanismi concorsuali del nostro Paese. Abbiamo parlato anche del diverso approccio alla gestione della pandemia dall’esordio fallimentare delle prime settimane sull’”immunità di gregge”, alla comparsa della famigerata “variante inglese” al successo della campagna vaccinale.

Come sei approdata oltremanica?
“Sono arrivata a Londra nel 2014, spinta da motivi personali ma anche e soprattutto dalla necessità di soddisfazioni professionali che non trovavano sbocco nel nostro Paese. In Italia nel 2014 i concorsi a tempo indeterminato sembravano un miraggio, al termine del percorso di scuola di specializzazione le principali possibilità lavorative erano i percorsi dell’emergenza-urgenza. Ambire ad un ruolo ospedaliero nella propria specialità con un contratto degno di tal nome era davvero difficile. Erano gli anni dei contratti atipici, dei Co.Co.Co, delle borse di studio e delle promesse degli universitari. All’inizio ho avuto difficoltà ad entrare nel sistema sanitario inglese, ho dovuto ricostruire un curriculum degno di tale nome. Le differenze tra sistema sanitario italiano e anglosassone sono molteplici, sia in ambito territoriale che ospedaliero. La struttura gerarchica è diversa e con essa l’organizzazione del lavoro che è molto meno vincolata alle decisioni di un primario. Ma la differenza principale sta nel percorso formativo. In Italia frequenti una “scuola di specializzazione” per un periodo variabile dai 4 ai 6 anni percorrendo un solco segnato dai direttori della scuola che nella maggior parte dei casi ti orientano verso le loro aree di maggiore esperienza senza fornirti strumenti per una corretta e completa formazione. Conseguito il diploma di specializzazione ti accorgi di aver ricevuto una formazione parziale con pochissima esperienza al di fuori del tuo reparto e vieni immesso nel modo del lavoro mediante un concorso che spesso giudica competenze solo teoriche.
In Inghilterra la formazione non è a gestione esclusiva delle università ma è gestita prevalentemente dal sistema sanitario. Un medico in formazione frequenta per circa 8 anni diversi reparti, diversi ospedali, variando tra specializzazioni affini e acquisendo skills molto più eterogenee. Il giovane specialista italiano che giunge in Inghilterra alle prime esperienze non viene inserito in percorsi di fellowship per completare la formazione. Al termine della fellowship aspiri al posto da consultant mediante inteview mirate a comprendere bene le tue capacità e conoscenze anche attraverso un’analisi approfondita del tuo curriculum. La narrazione che gli specialisti italiani sono molto graditi all’estero perché molto preparati è molto retorica; ci viene rimproverata spesso la carenza di esperienza.

Andiamo alla pandemia. È passato un anno dall’arrivo in Europa
“I primissimi giorni di marzo 2020 sono stati paradossali. Avevamo visto per due mesi ciò che accadeva in Cina, osservavo ogni giorno ciò che accadeva in Italia, ma la linea del Governo inglese appariva incomprensibile. Il discorso di Boris Jonhson del 13 marzo “sull’inevitabile perdita dei propri cari” è stato il punto più difficile da tollerare in una campagna di attendismo volta alla ricerca della soluzione nell’immunità di gregge. Molta parte dell’opinione pubblica ha mostrato una netta posizione contraria. L’ospedale di Northwick dove lavoro è stato il primo ospedale di Londra a dichiarare lo stato di crisi. In pochi giorni sono stati chiusi tutti i servizi programmati ed è stato convertito fino all’80% dei posti letto per pazienti Covid. In due giorni sono state create tre nuovi reparti di rianimazione. E per almeno due settimane abbiamo osservato una crescita di ricoveri quasi esponenziale. Al picco della crisi si sono registrate in ospedale 126 morti per covid in una sola settimana.

Siete stati forniti di DPI adeguati?
A peggiorare la situazione molto difficile è stata la superficialità con la quale è stata gestita la questione DPI. Ci venivano fornite solamente mascherine chirurgiche anche quando visitavamo sospetti o casi accertati. Non ci venivano fornite tute protettive, copricapi, sovrascarpe e camici adeguati. Lavoravamo con i nostri vestiti addosso e solamente un camice protettivo non idoneo. Erano necessari giorni per ottenere le risposte dei tamponi per cui la maggior parte dei pazienti veniva ricoverata nei cosiddetti reparti grigi ad attendere la diagnosi definitiva. Sentivo i miei amici e colleghi in Italia e vedevo le immagini dei sanitari protetti con DPI adeguati e questo accresceva un senso di frustrazione e paura. La risposta della dirigenza dell’Ospedale è stata netta: “ci limitiamo a seguire le direttive date dal ministero”.
Del resto anche l’organizzazione mondiale della sanità aveva pubblicato un documento sul possibile utilizzo della mascherina chirurgica in caso di ingresso nella stanza di isolamento di un paziente positivo. Tantissimi medici, infermieri e assistenti sanitari si sono contagiati e molti sono morti nel mio ospedale. Io mi sono infettata e sono stata malata per quasi 30 giorni.

Quando è migliorata la situazione?
A maggio abbiamo cominciato a osservare una riduzione dei casi e d’estate la situazione era nettamente rientrata. Abbiamo osservato le morti indirette da Covid. Molti pazienti con patologie croniche, che non hanno avuto accesso alle cure programmate e ai follow-up sono decedute.

D’estate in Italia si parlava di virus clinicamente morto…
In Inghilterra non sono state raggiunte cime di assurdità tali, ma la parte di popolazione contraria al lockdown, in particolar modo i giovani e le generazioni maggiormente produttive si è accresciuta.

E poi è arrivata la variante
In autunno si è assistito a un aumento graduale dei casi, ma con una crescita controllata. Tutto però è cambiato a metà dicembre. In un weekend siamo passati da 5 a 90 ricoveri. Eravamo increduli, ma avevamo capito che c’era qualcosa di diverso. I pazienti erano più giovani e molti con una età inferiore ai 40 anni. A pochi giorni dall’isolamento della variante è stato istituito un lockdown nazionale fino a marzo.

Come è stata organizzata la campagna di vaccinazione?
Dalla fine di febbraio la situazione è migliorata incredibilmente. Forse più per il lockdown che per la campagna vaccinale, ma è indubbio che la campagna vaccinale è stata pronta, efficace e massiva. Il Vaccination day è stato l’8 dicembre, e in alcune settimane sono state vaccinate decine di milioni di persone. La scelta di proporre i richiami a distanza maggiore rispetto alle indicazioni delle case farmaceutiche si è basata sull’osservazione che nei primi 3 mesi non si osserva una netta caduta degli anticorpi né nei soggetti che hanno sviluppato malattia né nei vaccinati. È stato un azzardo, ma è stata preferita la strategia di vaccinare più persone nel minor tempo possibile. Il sistema di somministrazione del vaccino si è rivelato efficace con il coinvolgimento dei medici di famiglia (GP General Practitioner). I GP in Inghilterra hanno di solito studi associati con diversi medici e infermieri per cui si sono dimostrati pronti ed hanno costituito il vero motore della campagna vaccinale.

È stato un anno durissimo anche per voi…
Al momento non riesco ancora a prendere le distanze da quello che abbiamo vissuto. Facciamo molta attività ambulatoriale virtuale chiamando i pazienti Covid che sono a casa e controllandoli anche mediante l’utilizzo di una app. Li chiamiamo 2 volte al giorno. Sono pazienti giovani sotto i 65 anni senza co-morbidità, ricoverati con polmonite e spesso dimessi in anticipo per permettere di liberare il posto per pazienti più gravi.
Inizieremo a giorni l’attività di ambulatori per i controlli post-covid e per le forme di long-covid.
È stato comunque un anno durissimo. Lavoro in un ospedale con un bacino di utenza enorme e con un livello sociale medio-basso. I casi sono stati tantissimi. Mi sono trovata in situazioni difficili, a dover scegliere quale paziente poteva aver maggior chance terapeutiche. Ho fatto salutare madri e figli attraverso un vetro mentre morivano di insufficienza respiratoria. Questo ha “bruciato” parecchi di noi e non so che effetto avrà in futuro; in compenso ha creato uno spirito che ci ha uniti molto. Sono fiera di essere stata in prima linea nella gestione dei pazienti vittime di questa pandemia.

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