Dicono di noi
14/11/2023

Chi non scappa viene colpito mentre lavora e affondato quando è in pensione - QUOTIDIANO SANITÀ

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Gentile Direttore,
non le nascondiamo che, in queste settimane, il disorientamento tra medici e dirigenti sanitari del SSN, è davvero grande.
Nel testo della manovra economica sono contenute norme per colpire solamente una parte dei lavoratori italiani, in particolare i dipendenti pubblici e ancora più in particolare i medici e gli infermieri, giovani e non più giovani. Forse non è stato afferrato appieno dalla popolazione e dai mass media, ma in questa manovra ci sono norme che fanno impallidire la Riforma Fornero, passata alla storia come la legge “lacrime e sangue”.

Provo a riassumere le novità più importanti per la nostra categoria:
1) La parte retributiva dell’assegno pensionistico dei futuri pensionandi medici, dirigenti sanitari, infermieri e dipendenti degli enti locali, che hanno meno di 15 anni di contributi ante-1/1/1996, verrà letteralmente taglieggiata di migliaia di euro annui;
2) La pensione anticipata contributiva, ovvero quell’istituto che permette di andare in pensione 3 anni prima rispetto all’età della vecchiaia (quindi 67-3 = 64 anni), verrà modificata: chi opterà per questo anticipo, per 3 anni riceverà un assegno massimo di 5 volte il minimale INPS (in tutto 2835 lordi al mese, ben al di sotto dell’assegno futuro spettante). Come se non bastasse, verrà introdotta una finestra mobile di 3 mesi, che quindi annacquerebbe ancora di più la convenienza della norma;
3) L’indicizzazione all’inflazione dell’assegno pensionistico verrà taglieggiato dal 2024: dal 75% del valore dell’inflazione annua attuale, si passerà a un misero 37% per la maggior parte degli assegni, e poi addirittura si scenderà al 22% per gli assegni più corposi;
4) I 67 anni necessari per la pensione di vecchiaia saranno innalzati all’aspettativa di vita dal 2025 e non più dal 2027. Stessa cosa per i requisiti per la pensione anticipata (oggi 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne).
Ora, cerco di fare un’analisi punto per punto.

Ma con un a premessa: i dirigenti medici sanitari e veterinari essendo parte della pubblica Amministrazione versano un’aliquota marginale IRPEF comprensiva di addizionali di circa il 46%. Da un recente articolo di Report pubblicato sul Corriere della Sera, il 14% dei contribuenti totali con almeno 35mila euro di reddito paga da solo il 62,52% dell’IRPEF italiana. È importante ricordarsi questo ragionamento, perché è facile, altrimenti, puntare il dito contro “chi apparentemente guadagna di più”.

Sul primo punto, si è già scritto e parlato tanto. Cambiare le regole a partita in corso è da vili. Non condivido affatto la storiella della solidarietà intergenerazionale, perché le motivazioni storiche del retributivo, seppur ora in via di esaurimento, rimangono; non si possono cancellare con un colpo di spugna, come se fosse gesso sulla lavagna. Nonostante io stesso faccia parte del contributivo puro, ho profondo rispetto e difendo a spada tratta i diritti acquisiti in fasi storiche molto diverse da quella attuale. Anche se differenti, non devono giustificare una sorta di revisionismo storico previdenziale, additando come privilegi ciò che invece, fino a qualche decina di anni fa, erano le regole del sistema. Per i medici e dirigenti sanitari, questa norma implicherebbe una perdita annua netta stimabile tra i 600 euro e i 10.300 euro, ovvero una perdita ventennale tra i 12000 euro e i 207000 euro. 207000 euro netti! Una casa, una Ferrari Portofino, 795 euro mensili di assegno pensionistico in più.

Ora è comprensibile perché in questi giorni i colleghi più anziani, che hanno già maturato diritto a pensione, stanno letteralmente scappando, dimettendosi in massa, per sfuggire alla modifica. Lo stanno facendo a centinaia, in un momento storico di grave carenza di medici specialisti su tutto il territorio nazionale. Non c’è da aggiungere altro, credo. Lo scenario parla da sé.
Il secondo punto, si colpiscono i giovani. Sappiamo tutti benissimo che il sistema contributivo, a differenza del sistema misto e del retributivo, ha generalmente un assegno molto più basso dell’ultima busta paga con la quale si va in pensione. Nel 1995, forse per mitigare la penalizzazione data dalla diminuzione degli assegni futuri, fu introdotta la possibilità, per chi faceva parte del contributivo puro (ovvero nessun contributo prima del 1/1/1996) di andare in pensione 3 anni prima rispetto all’età di vecchiaia. In effetti il contributivo consente questo sistema: essendo tutto basato sul montante contributivo, ovvero ciò che hai versato nel corso della tua vita e diviso per gli anni di aspettativa di vita media dal momento del pensionamento, permette di mantenere in equilibrio il sistema anche andando in pensione con qualche anno di anticipo. Infatti qualcuno morirà all’età di aspettativa di vita media, qualcuno prima, qualcuno dopo; il saldo sarà sempre pari. Qualche esperto di previdenza ipotizza che il metodo contributivo, a regime, permetterà di andare in pensione quando si vuole, magari prevedendo un’età minima ma sicuramente più permissiva rispetto alle regole attuali.

Nonostante questi ragionamenti teorici, il Governo va esattamente in direzione contraria: inasprisce le regole della pensione anticipata contributiva, introducendo un tetto all’assegno e la finestra mobile di 3 mesi. Questa modifica, che colpisce duramente soprattutto i giovani di oggi con reddito medio-altorigorosamente al lordo della tassazione, farà sì che nessuno opterà per questa possibilità e il riscatto di laurea diventerà praticamente obbligatorio per uscire anticipatamente con le regole della Fornero, altrimenti rimarrebbe solamente la pensione di vecchiaia come eventualità di uscita, verosimilmente a 70 anni per i 35-40enni di oggi per la crescita dell’aspettativa di vita. Il riscatto di 6 anni di laurea, seppur agevolato, per i medici costa quasi 35000 euro. Per non parlare di quello ordinario, che costa quasi 140000 euro. Il riscatto entrerebbe nel montante contributivo che, voglio ben specificare, non viene rivalutato seguendo l’inflazione, ma seguendo l’andamento del PIL italiano, pressoché stagnante negli ultimi 10 anni, quindi con una rivalutazione nettamente inferiore agli aumenti inflazionistici, a meno che l’economia italiana non si metta a correre, negli anni a venire, come quella cinese di qualche anno fa. In poche parole, già si sa che è un investimento a perdere.

Un appunto per chi si azzardasse a sostenere che “è giusto che i ricchi abbiano un assegno pensionistico più basso”: ricordiamoci tutti che non siamo ricchi, soprattutto quando confrontati con i colleghi europei (i medici italiani hanno gli stipendi tra i più bassi d’Europa). Inoltre è importante sapere che tutto ciò che va nel montante contributivo, deriva da un versamento che proviene dalla nostra busta paga, di oltre il 33%, che ci viene sottratto nel presente per essere dato nel futuro. Mettere un cap a ciò che ho versato in una vita di lavoro non solo è ingiusto, ma è proprio una ruberia!

Il terzo punto è probabilmente il più mostruoso dei quattro. Sostanzialmente si riduce la rivalutazione degli assegni pensionistici nel tempo. Da una stima del Corriere della Sera, un pensionato con pensione di 5637 euro lordi mensili, perderebbe oltre 100 mila euro in 10 anni per mancata rivalutazione. Anche in questo caso, ogni ulteriore commento è superfluo.
Sul quarto punto, preciso solamente che abbiamo un’età pensionabile tra le più alte d’Europa. Alcuni di noi non ce la fanno a stare in servizio fino a 67 anni, magari svolgendo ancora guardie notturne e reperibilità. Piuttosto che prevedere anticipi una tantum come le varie quota 100-102-103, forse sarebbe bene prevedere regole più favorevoli per alcune categorie di lavoratori.
Cosa rimane da dire, che non è già stato detto? La nausea e il disgusto per come siamo trattati sono tali, che è impossibile non scioperare il 5 dicembre. Non è possibile che in Italia chi guadagna di più della media, venga massacrato in questo modo.

Tutta la nostra categoria, dopo anni di sacrifici tra pandemia, blocco del turn-over, blocchi contrattuali poliennali, straordinario non pagato, sequestro del TFS/TFR, si sente presa in giro, per non usare un’altra espressione più colorita. Questo Governo sta mettendo in atto un “comunismo di centro-destra”: toglie a chi ha versato di più per dare a chi ha versato meno, in una sorta di omogeneizzazione complessiva delle contribuzioni e delle pensioni. Alla fine, come nell’ideologia marxista più radicale, che tu abbia lavorato di più o di meno non ha importanza: non viene premiato l’impegno, lo studio, il ruolo sociale, i contributi versati, perché siamo tutti uguali. Pensavo di vivere in un paese capitalista, probabilmente mi sbagliavo…

Se tutto il pubblico impiego è in ginocchio, noi siamo a terra. Il continuo cambio di regole previdenziali non aiuta l’instaurarsi della fiducia nei confronti dello Stato. Chi può, scappa all’estero o nel privato, dove retribuzioni e regole previdenziali sono più generose. Chi rimane, viene colpito mentre lavora e affondato quando è in pensione. Quanto tempo potremo andare avanti così?

Matteo D’Arienzo
Segretario Anaao Assomed Azienda Policlinico di Modena

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