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06/03/2023

Il lavoro ospedaliero causa di sofferenze. Quali le soluzioni? LO SPECIALE

Intervista al Segretario Nazionale Anaao Assomed
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Secondo un recente sondaggio dell’Anaao-Assomed, il lavoro ospedaliero è causa di sofferenze e di alienazione per cui un medico su quattro è pronto a dimettersi. Addirittura, alcuni parasanitari hanno lasciato la loro paga da fame e si sono inventati contadini in Australia. Pierino Di Silverio, segretario nazionale del sindacato da luglio 2022, sottolinea che in realtà è un disagio latente che accomuna i medici da molto tempo e il sondaggio non fa altro che attestarlo. «I dati rilevano che ben sette medici al giorno lasciano anzitempo il Servizio sanitario nazionale per andare nel privato o all’estero, ovvero dove viene permesso loro di esercitare la professione in sicurezza, in un ambiente sereno e con gratificazioni professionali»

Quanto hanno inciso, secondo lei, i due anni di pandemia? E quanto continuano a pesare, in un Paese che non conoscere meritocrazia, clientela e nepotismo?

«I mesi della pandemia hanno assestato il colpo di grazia alla condizione psicofisica dei medici, che era già molto precaria per ragioni che risalgono all’ultimo decennio durante il quale il Servizio sanitario è stato definanziato e destrutturato con la logica conseguenza dello svilimento del ruolo professionale del medico ospedaliero, complici anche i vari decreti che hanno introdotto i lavori atipici. La conseguenza è che il 65 per cento dei medici e dei dirigenti sanitari è in “burnout” (i sintomi che derivano da una condizione distress cronico e persistente, associato al contesto lavorativo). Ecco perché a medio termine questa situazione si traduce in dimissioni in massa. Clientela e inefficienza organizzativa sono figlie anche di un contratto che, da un lato, non permette a medici e dirigenti sanitari di crescere professionalmente e, dall’altro, li ingabbia in vincoli, incompatibilità e tassazioni pari al 47 per cento. Il tutto con l’impossibilità di svolgere la professione in sicurezza e in contesti umanamente e professionalmente dignitosi».

D’accordo, ma come la mettiamo, dottor Di Silverio, con i colleghi che si fanno vanto di operare in prestigiose strutture pubbliche per poi scappare di pomeriggio nelle cliniche private?

«E’ una boutade. Il nostro contratto non ci dà la possibilità di lavorare di mattina nell’ospedale pubblico e di pomeriggio con i privati. Ci consente, con un costo di decurtazione di 1000 euro dallo stipendio, di fare studio privato all’esterno e fuori dell’orario di lavoro. In alternativa, possiamo operare all’interno dell’ospedale lasciando il 70 per cento della remunerazione all’azienda e pagando sul restante 30 per cento una tassazione del 41 per cento. E’ un’informazione del tutto errata, spesso il problema nel nostro Paese è la disinformazione che regola l’informazione».

Come valuta la funzionalità di un’architettura articolata su ben 21 servizi sanitari locali?

«Negativamente. E’ un ostacolo al riconoscimento professionale. Le diverse aziende sanitarie presentano offerte professionali e qualità di erogazione di cura diverse per cui se ci sono strutture che erogano servizi migliori si tende ad andare in queste strutture. E’ un sistema che, sullo slancio della riforma dell’articolo V della Costituzione che si vorrebbe ancora estendere con l’autonomia differenziata, si regge con estrema difficoltà».

Quali sono le vostre proposte per migliorare le condizioni di lavoro dei colleghi?

«In primis, depenalizzazione dell’atto medico. Quindi riconoscimento del medico come pubblico ufficiale per ridurre il fenomeno delle aggressioni, sganciamento della professionale dai vincoli della Pubblica amministrazione, flessibilità contrattuale, migliore remunerazione, nuove assunzioni, la possibilità di fare carriera. Abbiamo ispirato il decreto Calabria, che permette allo specializzando di essere assunto qualora risultasse vincitore di concorso anche se l’università ci ha messo lo zampino perché tende a trattenere i suoi studenti».

Quante assunzioni ci vorrebbero?

«Quindici o sedicimila, in particolare nelle specializzazioni più gravose e più complesse, sottoposte a rischi e complessità, come la medicina d’urgenza e la chirurgia. In verità, la soluzione ce l’abbiamo in casa: dobbiamo permettere allo specializzando di venire in ospedale, come si fa in tutta Europa, con un contratto. In questo modo si recupererebbero 30mila medici. Invece, come detto, le università se li tengono stretti perché servono a loro per coprire i reparti universitari con una logica di lobby che garantisce un sistema di potere e non di cure».

Il Servizio sanitario nazionale nasce il primo luglio 1980. Subito dopo nacquero i Comitati di gestione e a seguire furono istituite le Usl e le Asl, pesantemente condizionati dalla politica. Possiamo dire che, paradossalmente, l’inizio del declino del Sistema sanitario nazionale sia coinciso con la sua nascita?

«Non subito, da quando la gestione delle aziende sanitarie è stata interamente demandata dalla politica. Si è passati da una forma di condizionamento, all’epoca dei Comitati di gestione, a un’ingerenza diretta della politica con le Asl. E’ stato come rendere legale ciò che prima passava sottotraccia. Il modo migliore per cambiare è quello di restituire la gestione degli ospedali ai medici. Immagino un mondo ideale in cui i direttori generali e quelli sanitari vengano scelti dai medici e il loro operato venga giudicato non sulla scorta di un bilancio economico, ma sulla qualità dei servizi garantiti».

 

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