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26/02/2021

Corte di Cassazione sulla definizione di mobbing

Ordinanza della Suprema Corte di Cassazione – Sez. Lavoro - N. 29767/2020

Commento di Luca Sbaiz – Responsabile regionale Settore Dirigenza Sanitaria Anaao Assomed Piemonte

Una dipendente di un ente pubblico aveva adito il Tribunale per ottenere un risarcimento del danno biologico per mobbing.

Successivamente l’ente pubblico ha presentato ricorso presso la Corte d’Appello avverso la sentenza del predetto Tribunale che aveva accolto la richiesta della suindicata dipendente.

In riforma della sentenza del Tribunale la Corte d’Appello ha invece respinto la richiesta della dipendente, ritenuto che la stessa non aveva provato la sussistenza di una condotta dolosamente preordinata alla vessazione ed emarginazione, essendo invece emerse circostanze che, eventualmente, erano suscettibili di configurare una mera difficoltà di rapporti con amministratori dell’Ente o superiori gerarchici.

In altri termini, in difetto di prova di una esplicita volontà del datore di lavoro di emarginare il dipendente in vista di una sua espulsione dal contesto lavorativo o, comunque, di un intento persecutorio, la Corte d’Appello non ha ritenuto provata la responsabilità dell’amministrazione datrice di lavoro ex articolo 2087 c.c.

La lavoratrice ha quindi presentato ricorso presso la Suprema Corte di Cassazione -sez. lavoro - , sostenendo, tra l’altro, di essere stata demansionata, condotta questa significativa del mobbing.

La Suprema Corte di Cassazione -sez. lavoro – ha evidenziato che la giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi: a) molteplicità dei comportamenti a carattere persecutori posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

La giurisprudenza di legittimità ha inoltre chiarito che l’elemento qualificante del mobbing deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria.

Pertanto non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.

La Corte d’Appello aveva rigettato la domanda della lavoratrice ponendo a fondamento della decisione la mancanza dell’intento persecutorio, che costituisce elemento necessario per la sussistenza del mobbing.

Tale statuizione che costituisce la ratio decidendi della sentenza di appello non è stata specificamente censurata dalla ricorrente, che si è limitata a dedurre la sussistenza di demansionamento quale fattore di per sé stesso integrante mobbing.

La Suprema Corte di Cassazione ha pertanto dichiarato il ricorso sopraindicato inammissibile, confermando la sentenza della Corte d’Appello.

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