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08/12/2020

Perché in Italia ci sono pochi medici negli ospedali pubblici. L'Anaao su 24 PLUS

La crisi del Covid ha fatto emergere un deficit di medici nelle strutture pubbliche. Le associazioni denunciano il “collo di bottiglia” della specializzazioni. Ma non è così semplice.

Sempre più laureati e medici, sempre meno professionisti nella sanità pubblica. Il paradosso è diventato esplosivo con la pandemia di Covid-19, l’emergenza che ha messo in risalto una fragilità denunciata da anni: la carenza di risorse nel Servizio sanitario nazionale, l’insieme dei servizi e delle attività per la salute pubblica dei cittadini.
Il sistema sembra già sull’orlo dell’implosione, con scenari anche più cupi sul breve termine. Secondo le stime di Anaao-Assomed, un’associazione che raccoglie i medici dirigenti, il sistema sanitario nazionale rischia di fare i conti con un deficit dai 10mila ai 24mila camici bianchi nell’arco di un quadriennio. Ma in Italia c’è davvero una «carenza di medici», o è un problema che si manifesta solo nelle strutture pubbliche? E come si è venuto a creare il gap?

Un confronto con la Ue: i medici ci sono
Iniziamo dalla prima domanda. Rispetto agli standard europei, l’Italia non è sprovvista di medici. Anzi. Una ricerca dell’agenzia Eurostat dell’agosto 2020 evidenzia che il nostro è il secondo paese con più medici in assoluto su scala Ue: circa 240mila sugli 1,7 milioni registrati nella Ue a 27, dietro solo alla Germania (357mila, il 21,1% del totale) e davanti a Francia (212mila) e Spagna (188mila). Il dato, a quanto rileva l’Istat, è andato in crescita negli anni, con un incremento di 5.370 unità rispetto ai 234.918 camici bianchi conteggiati nel 2013.
Il bilancio si fa meno eclatante dando un occhio al rapporto con la popolazione: 397 medici ogni 100mila abitanti secondo Eurostat o 3,1 medici ogni 1000 abitanti secondo Istat. Una proporzione che colloca comunque l’Italia in una fascia intermedia fra i picchi raggiunti da paesi come la Grecia (610 medici ogni 100mila abitanti) e i minimi degli unici due stati Ue sotto la soglia dei 300: Lussemburgo e Polonia, rispettivamente fermi a 298 e 238 medici ogni 100mila abitanti.

La carenza di medici nella sanità pubblica
Il problema, semmai, è che la disponibilità complessiva di medici non si riflette negli organici della sanità pubblica. Nel 2017 il Ministero della Salute conteggiava 104.979 medici assunti a tempo indeterminato nel servizio sanitario nazionale fra Asl, aziende ospedaliere ed universitarie, istituti di ricovero e cura a carattere scientifico pubblici, Ares (Agenzia regionale sanitaria) ed Estav. L’equivalente di 1,7 medici ogni 1000 abitanti, con un calo di 3.401 medici rispetto ai dati del 2012.
Nel 2018 l’Anaao ha registrato una carenza di circa 6.200 medici e 2mila dirigenti sanitari rispetto al 2009, l’anno di maggiore dotazione del servizio sanitario nazionale. Lo scenario si è inasprito con l’arrivo del Covid, visto che la pandemia è esplosa in coincidenza «con il punto più alto della curva pensionistica dei medici dipendenti del SSN, oramai arrivato a circa 6mila-7mila quiescenze ogni anno» dice Carlo Palermo, Segretario Nazionale Anaao Assomed.
Non aiuta, in questo senso, che l’età media del personale sia fra le più elevate d’Europa. Sempre nel 2017, secondo le ultime statistiche del ministero della Salute, i medici fra i 30 e i 39 anni assunti a tempo indeterminato rappresentavano appena l’11,3% del totale, contro il 23,9% della fascia 40-49 anni, il 36,7% della fascia 50-.59 anni e il 23,6% nella fascia 60-64 anni. Un dato che assegna all’Italia il primato di medici più anziani su scala Ue, come ricorda Eurostat, evidenziando una quota di over 55 pari al 56% del totale.
L’esito è che nel quadriennio 2019-2023 si potrebbe arrivare a un deficit di 10:173 medici, il frutto dello squilibrio fra 32.501 pensionamenti , scrive Anaao, e gli appena «22.328 nuovi specialisti che opteranno per il Ssn, il 66% del totale annuo». E la stima è prudenziale. Se si considerano la carenza pregressa di oltre 6.200 camici bianchi e la necessità di almeno 4mila specialisti per fronteggiare l’emergenza di Covid, l’ammanco può lievitare a 24mila medici entro il 2023.

Problema uno: l’imbuto formativo
Fin qui i numeri e l’intoppo, evidente, fra del ricambio generazionale. Ma da cosa nasce il dislivello? La prima tesi, quella di Anaao, è che il cortocircuito nasca da un «decennio fallimentare nella programmazione dei fabbisogni specialistici», con un rapporto sbilanciato fra i pensionamenti e il numero di contratti formativi finanziati (vale a dire i contratti per le specializzazioni e le borse per la Medicina generale, quelle per la formazione dei medici di famiglia).
Insomma, le uscite non si sono accompagnate a un numero adeguato di contratti di formazione che tenesse conto sia del fabbisogno del sistema che del totale di neolaureati in arrivo dalle università. È quello che Anaao ha ribattezzato «imbuto formativo». «Negli ultimi dieci anni sono rimasti esclusi circa 12mila neolaureati, rimasti imprigionati in un limbo fatto di precarietà e svilimento professionale - dice Palermo di Anaao - tanto che ogni anno circa 1.500 di loro preferisce emigrare». Il gap è destinato ad allargarsi, visto che negli anni gli accessi al numero chiuso per il corso di laurea in Medicina sono cresciuti a un ritmo decisamente superiore rispetto a quello dei contratti di specializzazione.
I posti a numero programmato sono lievitati dai 7.547 del 2008 ai 13.072 del 2020-2021, mentre i contratti specialistici e le borse per la medicina generale sono cresciuti a un ritmo decisamente più blando: rispettivamente, da 5mila a 7.317 (con un incremento una tantum di 5.400 posizioni nel solo 2019-2020, portando il totale a 13.400) e da 851 a 1.500. Per il 2020-2021 si attendono almeno 22mila iscritti (12mila neolaureati e 10mila candidati che ripetono il concorso) a fronte di 10mila posti disponibili. Sempre che il «concorsone» vada in porto nei tempi stabiliti, a differenza di quanto si è verificato nell’anno in corso: gli oltre 20mila candidati per la selezione del 2019-2020 sono a tutt’ora in attesa delle proprie assegnazioni, dopo che la pubblicazione delle graduatorie è stata rinviata dal 30 novembre al 15 dicembre.

Probema due: il deflusso verso il privato
Una seconda angolatura del problema emerge già dalle stime di Anaao: “solo” il 66% degli specialisti opta per il servizio pubblico. E il resto? Una fra le destinazioni alternative è la sanità privata, industria cresciuta fino a diventare concorrenziale a quella pubblica. Secondo stime del Ministero della Salute si conteggiavano, sempre nel 2017, 12.255 medici nelle strutture «equiparate al pubblico», 24.213 medici nelle case di cura convenzionate e 3.326 medici nelle case di cura non convenzionate. In totale si parla di 39.794 professionisti operativi nel settore privato: una cifra pari a oltre un terzo di quelli assunti nel pubblico, anche se le due categorie non si escludono a vicenda.
Ai medici assunti tout court in istituti privati si sommano, infatti, quelli che operano in un regime di libera professione: una condizione che permette di prestare servizio sia in strutture ospedaliere pubbliche che in realtà private, senza vincoli di esclusiva con il Ssn. Dati forniti da Anaao rivelano, ad esempio, che l’80% dei medici in servizio presso case di cura nel 2018 rientrava nelle categoria dei liberi professionisti. Raggiunta dal Sole 24 Ore, l’Associazione italiana ospitalità privata non ha potuto fornire dati aggregati sul totale di medici operativi nelle strutture equiparate al pubblico.
 
Problema tre: la carenza di alcune specializzazioni
Un terzo problema è che la carenza può essere, a volte, qualitativa. Nel senso che mancano all’appello alcune specializzazioni, ancora più preziose in un periodo di emergenza sanitaria come quella esplosa da quasi un anno. Il caso più evidente è quello degli anestesisti-rianimatori. L’Istat registrava nel 2018 un totale di 12.966 anestesisti, l’equivalente di 0,21 specialisti ogni 1000 abitanti. Prima della pandemia, il sindacato medico Aaroi-Emac stimava una carenza di almeno 4mila anestesisti-rianimatori negli ospedali italiani.
Oggi il “buco” sembrerebbe essersi ridimensionato con le misure di emergenza, come il ricorso agli specializzandi degli ultimi due anni, ma la crisi sanitaria «rende inalterato il gap tra necessità e personale disponibile in questa specializzazione» spiega il presidente Aaroi-Emac Alessandro Vergallo.
Le associazioni denunciano una carenza di posti per la specializzazione, marcata pure per un’altra categoria sensibile come quella della Medicina di urgenza. Ma anche in questo caso, l’insufficienza di borse di studio rivela solo parte di un problema più vasto: la disciplina è tutt’altro che in cima alle scelte dei neo-dottori, attratti - legittimamente - da branche più remunerativi e meno logoranti. In media, spiega Vergallo, una quota pari ad almeno il 10-15% degli specializzandi abbandona dopo il primo anno per ritentare il concorso verso altri ambiti.
Lo scarso appeal della disciplina deriva da una lunga serie di fattori. «In primo luogo la tipologia di lavoro, particolarmente stressante, che richiede, oltre alle competenze professionali in senso stretto, una speciale attitudine ad affrontare quotidianamente emergenze tempo dipendenti in cui c'è di mezzo la vita dei pazienti - dice Vergallo - Ma un altro punto sono le condizioni lavorative. Lavorare per oltre dieci anni in carenza di organico ha determinato condizioni lavorative decisamente difficili, che si ripercuotono negativamente sulla vita privata e familiare più che in ogni altro ambito specialistico». Lo sforzo non è gratificato più del dovuto a livello economico, se è vero che gli anestesisti italiani sono pagati in media il 30% in meno dei colleghi europei.

Per l’anno in corso, il ministero ha predisposto 1.600 borse per la specialità. Una buona notizia, se non fosse che Vergallo teme che «le implementazioni delle borse di studio vadano in gran parte deserte, così come per la specializzazione in Emergenza-Urgenza». La soluzione per attrarre nuovamente risorse è, anche, quella più pragmatica: «Operare una differenziazione contrattuale specifica anche sotto il profilo economico di professionisti che di fatto dedicano tutta la vita in ospedale al servizio dei cittadini».

 

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